«La scienza delle cose corporee s’aggira intorno a tre principali oggetti: corpi celesti, elementi, e corpi naturali. Di questi tre generi quanto nobili i primi, quanto pieni di ricerche i secondi, altrettanto curiosi ed interessanti gli ultimi. Se non può l’uomo sostenere la sua vita senza l’uso di questi, ei si vede in dura necessità di averli sempre all’uopo, epperciò a doverne sapere tutte le proprietà.
La scienza che insegna a conoscerli ne dimostra le qualità: Scienza naturale o Storia naturale propriamente si appella. Essa non si apprende colle sedentarie meditazioni, ma coll’ispezione oculare, richiama i genj ben formati a contemplare i suoi prodotti ne’ luoghi di loro abitazione, e tratti dalle di lei bellezze, lasciate le città, scorrono pianure, cavalcano monti, passano mari, e tornano nella patria ricchi di fatti belli, che non solamente recano allo spirito pabolo fecondissimo, ma utilità immediata all’uomo».
Con queste parole, nel 1779, Filippo Cavolini apriva il suo scritto dal titolo Saggio di Storia Naturale dell’estremo ramo degli Appennini che termina dirimpetto l’isola di Capri1. Si tratta di una delle prime descrizioni dei Monti Lattari secondo il modello di indagine naturalistica inaugurata da Linneo e Buffon, che il nostro autore riprende e applica con convinzione. Conoscere non significa la “sedentaria meditazione” ma l'”ispezione oculare”: partendo da questo assunto il Cavolini percorse in lungo e in largo, negli anni Settanta del XVIII secolo, la penisola sorrentina, dalle montagne al mare, industriandosi tra gli anfratti calcarei dei picchi e le frastagliate coste rocciose.
«Un giogo di monti isolato dal resto degli Appennini è quello che, sorgendo sulle pianure di Cava, Nocera e su Vietri dalla parte del seno Pestano, dal Nord al Sud, inoltrandosi nel mare, va a finire rimpetto l’Isola di Capri. […] Il suo picco è il Faggeto» scrive ancora il Cavolini «così chiamato dalla quantità di faggi, quercie ed olmi che alimenta: celebre per gli erbaggi che forniscono copiosa pastura agli armenti, dantino squisitissimo latte».
Mentre i suoi contemporanei discettavano sui Lattari e la penisola sorrentina come un’ex isola poi collegata alla terra dalle eruzioni, e si impegnavano in disquisizioni filosofiche e storiche, tentando di individuare il sito tra quelli mitici dell’Odissea, il Cavolini catalogava specie botaniche per la penisola, si immergeva nel mare per descriverne i molluschi che l’abitavano, percorreva le cime dei monti per verificarne altezza, clima, geologia, flora e fauna. Ma anche le tipologie antropologiche non gli sfuggivano. Così, in una sorta di esame sociologico della regione, annotava altezza e conformazione fisica degli abitanti, densità di popolamento e malattie, natalità e longevità.
Nel racconto del Cavolini non c’è ancora nessun interesse né spazio per la dimensione psicologica del viaggio, e manca del tutto l’esame delle sensazioni e riflessioni personali. Qui è lo scienziato che, in una regione ben definita, ricerca e cataloga il particolare geologico o botanico, descrive la geografia come il singolo elemento colto nel suo ambiente naturale. Il monte che sovrasta la costa diventa un’espressione umana e naturale al tempo stesso:
«Questo monte varia nell’altezza: il giogo più alto è il Fageto, il quale con una cima bicipite s’erge assai in sopra, ove è situata la chiesetta di S. Michele Arcangelo, la quale ha le mura di fabbrica, il tetto di legno. Per determinare l’altezza della sua cima mi sono avvaluto del barometro. Il freddo è ivi considerabile, non arriva però a quel grado cui giungerebbe se fosse lontana dal lido marino. La parte del monte che guarda il nord, anche per essere dirupata ed alpestre è quella ove regna un freddo eccessivo, dinotando e le piante boreali cui vi allignano, e le sorgenti di acqua freddissima».
Le ricerche del Cavolini non rimasero senza seguito. Tra gli anni Dieci e Quaranta dell’Ottocento lavorò sul Faito uno dei maggiori botanici del Regno, Giovanni Gussone, discepolo di Michele Tenore, il fondatore quest’ultimo dell’Orto Botanico di Napoli e autore della monumentale opera Flora Napolitana.
Proprio a partire dalle direttive che il maestro dava ai suoi allievi, e per le quali reperti essiccati e relazioni venivano inviate costantemente a Napoli dalle diverse regioni del Regno, il Gussone percorse, a più riprese, la catena dei Lattari, portando a fine il progetto di classificazione delle specie botaniche della penisola sorrentina e delle isole del golfo. Lo scienziato napoletano non si fermò ai meri progetti di classificazione della flora, ma inaugurò la lunga stagione del rimboschimento del Faito che avrà, dopo l’unità, nel proprietario della tenuta, il conte Girolamo Giusso, il suo più compiuto artefice.
La vasta eco che il suo nome avrà, nei ricordi dello stesso conte Giusso e del botanico Luigi Savastano, è del tutto meritata e il panorama boschivo che si può ammirare oggi sull’altopiano del Faito è dovuto in gran parte alla sua opera.
Personaggio di congiunzione tra la peregrinazione scientifica e un affiorante gusto prettamente alpinistico, infarcito anche di particolari e annotazioni che esulavamo dalla mera indagine botanica, è certamente Vincenzo Cesati, Bartolomeo Gastaldi, nel quale descriveva l’ascensione alla cima più alta della catena del Lattari, compiuta da tre squadre sotto la sua direzione. La prima, capeggiata dallo stesso Cesati, si proponeva di raggiungere il monte per il sentiero che partiva da Castellammare; una seconda squadra sarebbe partita da Vico Equense, mentre la terza doveva affrontare il percorso più arduo, quello che aveva origine ad Amalfi. Trascriviamo qui di seguito la lettera del Cesati che, si noterà, per la prima volta battezza quella cima, a causa della caratteristica configurazione fisica, il monte Molare:
«Collega chiarissimo e carissimo,
Actum est. Domenica 28 corrente abbiamo eseguita l’ascensione del Monte di Sant’Angelo ai Tre Pizzi sopra Castellammare, il cui culmine o dente, che dir si voglia, considerata la sua forma che abbastanza assomiglia ad un enorme molare, quale nissun mastodonte saprebbe vantare, è detto Pizzo di San Michele da un romitaggio, ora mezzo diroccato, che lo coronava. Siccome di ascensione alpina qui non può essere parola, si ebbe mente a rendere proficuo questo saggio di grimpage col rilevarne, a guisa di esercizio, quei dati di fisica terrestre e storia naturale che maggiore interesse potevano offerire. I soci iscritti per eseguirla, dovendo partire in tre gruppi, da tre punti diversi, fu cura della Direzione che il personale strettamente scientifico fosse ripartito per modo che un fisico ed un naturalista per lo meno stessero presso ognuno dei gruppi, i quali mossero poi alla medesima ora da Vico Equense (7 clubisti e alcuni dilettanti), da Amalfi (7 clubisti ed alcuni dilettanti), e da Castellammare (3 clubisti, essendo mancati altri due, uno dei quali, distinto giovane astronomo, si trovò impedito); s’erano poi associati due dei migliori giardinieri del nostro orto botanico per fare messe di piante vive, che reintegrassero le scorte ormai sciupate o disperse di questo stabilimento in punto Flora Paesana.
Primo a comparire sul Piano di Faito fu in drappello venuto da Vico e quasi contemporaneamente lo raggiungeva il mio gruppo uscito da Castellammare; e poi ch’ebbesi saziata l’avidità del botanico, facendo incetta, e incetta abbondante, della Iberis tenoreana, Centaurea pectinata, Saxifraga marginata, e d’altre vaghissime e rare figlie di Flora, verso la una pomeridiana ci trovammo fra le macerie del Sacellum Divi Michaëlis, circondati da un incantevole panorama. Indi a poco eravamo raggiunti dalla squadra d’Amalfi, che aveva avuto a superare maggiori difficoltà per l’asprezza dei ripidi e tortuosi sentieri.
Tre serie di osservazioni barometriche, sincrone, eseguite di mezzora in mezz’ora, furono il risultato principale topografico di questa amenissima escursione. Le osservazioni di confronto le eseguiva in Vico, al livello del mare, il clubista signor Riccio.
E perché a renderla maggiormente piacevole concorresse anche il confort, i nostri amabilissimi soci marchese e conte fratelli Giusso ci ammannivano ai piedi del dente un sostanzioso e saporito asciolvere, a condire il quale non mancava né il Marsala né il Bordeaux. In qual modo tutta quella grazia di Dio, fra cui due poderose damigiane, dai loro portatori fosse stata palleggiata sulla testa sino a lassù, è cosa che noi settentrionali, avvezzi a vedere ovunque la gerla che incurva testa, e nuca e dorso, non sappiamo comprendere. E pensate che era provveduto con tale abbondanza, che ne avanzò anche dopo la festosissima accoglienza fattavi da una comitiva che ascendeva ad oltre 45 persone.
Il ritorno fu fatto in corpo dall’intera brigata riunita, pel sentiero che, toccando la sorgente detta Acqua dei Porci, conduce al parco reale di Quisisana, donde calammo a Castellammare; eravamo usciti all’alba e rientrammo pochi minuti prima delle otto di sera […]».
Come si può notare l’interesse del Cesati è principalmente scientifico. Oggetto delle ascensioni sono i rilievi altimetrici e la raccolta di reperti botanici. Tuttavia l’accenno alla accoglienza che il conte Girolamo Giusso fece ai membri della spedizione, il particolare della presenza del cibo e delle bevande, l’ascensione al Molare con le damigiane piene di Marsala e di Bordeaux, stanno a significare che le esigenze espositive, pur nel rispetto delle rigide regole di una relazione accademica, valicavano il mero resoconto scientifico e si aprivano ad un modello di narrazione forse meno colto, certamente più colorito e vivace.